Una volta chiesero al cardinale Ratzinger se un tal teologo, da poco morto, fosse ancora scomunicato dalla Chiesa Cattolica o se ci fosse stata una sorta di riabilitazione. Ratzinger, quasi stupito dalla domanda, rispose serafico: «Una persona, nel momento della morte, perde la scomunica. Venendo meno il suo corpo viene meno anche la scomunica, perché da quel momento il suo essere non è più sottoposto al Codice di Diritto Canonico ma si trova nelle braccia di Dio».
Ecco, vorrei proprio riflettessimo tutti su queste parole, perché solo accettandole e facendole nostre possiamo in profondità comprendere il valore di un sano ecumenismo. Il fine, il fine di noi cristiani, è il raggiungimento del paradiso, è la vita eterna in Cristo, e questo passa necessariamente dalle beatitudini: “Avevo fame, sete, ero nudo, forestiero, in carcere” e da “colui che compie la volontà del Padre Mio”. È dunque essenziale comprendere quanto il Diritto Canonico, come ogni altra struttura hanno il compito di accompagnare il fedele alla vita eterna, ma non sono in se stessi la vita eterna, e né tantomeno la garantiscono in modo esclusivo, quasi appunto che siano esclusi dalla misericordia di Dio tutti coloro che non hanno imparato a memoria tutti i codici. Questo sì è un peccato grave, perché pone dei confini alla divina misericordia, e alla volontà del Signore che tutti siano salvi e al fatto che a tutti Dio concede le grazie per salvarsi e soprattutto relega la vita non a una relazione d’amore ma a una osservanza di precetti, non a un legame, ma a un legamento che ha il sapore della costrizione e non della libertà dei figli di Dio.
Riflettere sul fatto che dopo la morte, nell’aldilà, non esisterà più il codice di diritto canonico ma ci saranno ad attenderci le braccia di un Dio misericordioso non significa vivere in una inerte fase consolatoria della vita, in una forma di speranzosa rassegnazione, ma al contrario diffondere con impegno il concetto più alto che possiamo trasmettere: ossia Dio è amore, e: “Da questo si riconoscerà che siete miei discepoli, se vi amate l’un l’altro come io ho amato voi”, nel modo in cui Lui ci ha amati, donandosi fino alla morte in croce. Fino alla morte, dunque, la morte in Dio come segno di appartenenza a Cristo, come elemento che manifesta quello che viene definito: “l’addormentarsi nel Signore”.
L’esempio riportato all’inizio dunque ristabilisce un concetto chiave della soteriologia umana: ossia quello che sfata un tribunale terreno che santifica o danna le persone facendosi Dio ed auto-idolatrandosi (basti pensare a quante persone in stato di disperazione, lungo i secoli, si sono tolte la vita e a cui sono stati negati i funerali perché non degni di essere sepolti in terra consacrata, affermando, di fatto, che per loro la perdizione era già sancita, mentre anche per loro, oggi, ci si rimette alla misericordia di Dio, l’unico che scruta il cuore e i reni). Questo vale tuttavia anche per noi, esattamente come per i condannati a morte, dopo l’esecuzione tornano “ufficialmente” persone che hanno terminato di espiare la pena, così anche le scomuniche, le eresie, gli scismi vengono interrotti nell’istante nel quale l’uomo si ricongiunge con il suo Creatore. È come se anche l’uomo, per con tutti i suoi limiti, dinanzi alla morte comprenda come non tanto si debba il parce defuntis, una forma di pietismo fine a se stesso, ma interroghi se stesso su quanto sia limitato a differenza del defunto che ormai “sa”, “vede”, “conosce” la realtà e la verità tutta intera e contro il quale non può certo mettersi a competere, a tessere giudizi o a inoltrare condanne.
È bello dunque pensare, che, mentre noi tentiamo di costruire una Gerusalemme terrena, in cielo esiste già, ed esiste per ognuno, e nel momento in cui si passa la riva, cade ogni scomunica e il Salvatore si rivela nella pienezza del Suo amore in totale comunione con tutti colori che direttamente o indirettamente, hanno avuto sete di verità e lo hanno riconosciuto.
Matteo Salvatti