Nel fraseggiare cristologico appare sovente il tema dell’unità. Vorrei, in questa sede, soffermarmi su due espressioni. La prima è quella legata all’unione sponsale, ai due coniugi che, con il sacramento, diventano “una carne sola” e l’altra la preghiera di Cristo affinché i suoi fedeli siano “una cosa sola”. Questo tema dell’unicità è affascinante ma si presta anche ad alcune male interpretazioni quando non ad auentici fraintendimenti.
Da un lato, infatti, noi viviamo un concetto trinitario che pulsa della relazione di una sostanza, uno status che vede proprio nella relazione il compimento esistenziale, vocazionale delle comunità così come dei singoli: “Come ho fatto io, così fate anche voi”. Quel non è bene che l’uomo resti solo è la sintesi ontologica di una visione che vede la pienezza dell’essere nell’esserci, dimostrando la nostra non autosufficienza. Ma tutto ciò non basta. Altrimenti saremmo la Chiesa sarebbe un benemerito centro di aggregazione contro le solitudini. E sarebbe troppo poco. In gioco c’è prima di tutto l’eternità. Non può esserci dunque vera affermazione di fede in un isolazionismo di stampo individualistico, l’ecclesia, la comunità, prima di essere un mezzo per raggiungere Cristo, è già un fine, un obiettivo in se stesso, la vita della Chiesa è già la risposta a come Cristo voleva la Sua comunità, o meglio, è già la risposta al fatto che Cristo volesse una comunità, della quale avrebbe potuto tranquillamente fare a meno, ma questo rientra da un lato nel voler far assomigliare l’umanità alla relazione trinitaria, dall’altro al dono massimo della libertà, ad accettare che gli uomini e le donne di tutti i secoli fossero parte di un solo Corpo, così che, dove due o più si trovassero nel suo nome lui fosse in mezzo a loro. E la Chiesa, corpo mistico di Cristo,
Questo concetto, lo abbiamo visto, si esprime nel matrimonio, dove i due diventano una carne sola, ma non per questo diventano una “sola” carne, nel senso di fusione, di annientamento delle proprie peculiarità. L’unione a cui si fa riferimento è al contrario la valorizzazione individuale dei talenti dell’altro, è il ricevere totalmente l’altro e arricchirsi dell’altro, non una forma di dimuitio. L’espressione di Cristo, dunque, “Sarka Mian”, riprende proprio quella aramaica di “Hada”, e rimanda a quel concetto ebraico aramico di unione inscindibile che non è come la fusione di due colori da cui ne nasce un terzo che nulla assomiglia ai due. Ecco allora che, nell’ottica ecumenica, la sola Chiesa è ricollegabile all’altro termine ebraico (echad) dove uno, unità, assume una connotazione che noi oggi tradurremmo soprattutto con coesione e armonia, valori in se stessi che troppo spesso dimentichiamo in favore di una idea di unità che è sopraffazione, dominazione, quando non addirittura soprressione, mentre invece la storia del cristianesimo, prima ancora che la storia della chiesa, è la storia di una Chiesa che si è aperta “ad gentes”, ai gentili, a tutti, e non solo al popolo di Israele, non facendo distinzione e in questo modo dimostrando quanto la missionarietà stia nella testimonianza e non nell’esempio, mentre abbiamo sopportato reciprocamente umiliazioni e sofferenze per l’imposizione dei secondi senza essere degni di rappresentare i primi. Importante è evidenziare quanto Gesù abbia evidenziato che questa unione debba essere come quella che lega Lui e il Padre, dunque una unione reale ma al tempo stesso invisibile agli occhi umani, e perfino incomprensibile o addirittura assurda, tanto per citare S. Agostino e l’espisodio del bambino, il secchiello e l’acqua del mare.
Una unità dei cristiani, quindi, che non rispecchia dei canoni di join venture, di fusione di rami d’azienda nel mondo economico, dove l’attivismo e il ridimensionamento portano a risultati sotto gli occhi di tutti, quasi i risultati spirituali possano essere definiti secondo canoni logistici, ma dove possono sussistere addirittura elementi in apparenza di poca comprensione agli occhi umani, ma non per questo non portino con sé verità e frutti di vita eterna.
Matteo Salvatti