Il nunzio vaticano in Ucraina: mille giorni di guerra e «tantissima stanchezza»

ROMA (SIR) – Le mine antiuomo, l’inferno della prigionia, gli sfollati dalle città e dai villaggi sul fronte, il recupero dei corpi morti. Ma anche i tentativi diplomatici, le “promesse” dei grandi leader mondiali e la missione dell’inviato speciale di Papa Francesco. Con il nunzio apostolico di Kyiv, ovvero l’ambasciatore del Vaticano, monsignor Visvaldas Kulbokas, ripercorriamo i lunghissimi 1.000 giorni dall’invasione russa dell’Ucraina che ricorrono esattamente martedì 19 novembre. «Martedì sarà una giornata molto intensa di lavoro ordinario», confessa il nunzio. E di lavoro ce n’è tanto. La nunziatura ha la porta aperta a tutti, il telefono sempre pronto a dare risposte. Incontri ma soprattutto ascolto. «Sabato – racconta il nunzio – ho parlato con due persone che hanno creato un gruppo di ricerca dei corpi dei morti. Si impiega tantissimo tempo e tantissime risorse per recuperare anche il corpo di una sola persona per poterlo ridonare alla famiglia che ha perso un figlio, una figlia. Ho chiesto: ‘quanti corpi siete riusciti a ritrovare in questi 1.000 giorni?’. Mi hanno detto, oltre 500. Sono tantissimi. Mi hanno fatto vedere delle riprese video per farmi capire come fanno. A volte mandano 3/4 droni per individuare un corpo. Poi inviano sul posto un robot e c’è tutto un lavoro delicato per recuperare il corpo. Spesso si deve lavorare di notte perché di giorno è troppo pericoloso. Questo solo per dire, che ogni giornata è molto intensa».

1.000 giorni di aggressione russa su vasta scala. Quale il suo ricordo del momento più difficile e il ricordo del momento più bello?
Tra i momenti più belli ricordo sicuramente quello quando – era maggio 2022 – per la prima volta siamo potuti uscire senza la paura di imbatterci su una mina antiuomo. Perché addirittura a Kiev nei mesi di febbraio e marzo era tutto minato. I momenti difficili invece sono tanti. Certamente il periodo iniziale è stato un grande shock perché gli eventi si sono evoluti con molta rapidità e non c’era neanche il tempo di capire se Kiev fosse già occupata, oppure no. Sono stati momenti molto agitati. Ma c’è un altro aspetto molto difficile che si protrae fino ad oggi, ed è quello dei prigionieri, militari e civili. Fin dall’inizio abbiamo avuto notizie di prigionieri. Parecchi di loro quindi si trovano nelle prigioni da 1.000 giorni. Purtroppo, non si riesce a fare quasi nulla per loro. Questa consapevolezza è molto pesante.

Con tutto quello che poi significa essere prigioniero.
Due settimane fa la Commissione internazionale indipendente delle Nazioni Unite ha pubblicato un nuovo report in cui specifica che gli attacchi contro le infrastrutture energetiche poiché sono sistematici – un attacco massiccio, c’è stato anche oggi in quasi tutto il territorio – costituiscono un crimine di guerra. Ma anche la situazione dei prigionieri è pesante perché implica torture, mancanza di comunicazione, di igiene, mancanza di tantissime cose. Anche tutto questo costituisce un crimine contro l’umanità. E su tutta questa situazione pesa anche la constatazione che non si sa come liberarli, neanche i prigionieri civili. Temo che per molti di loro, e sono migliaia e migliaia, anche se la guerra dovesse fermarsi, è difficile sperare che vengano liberati perché non ci sono né i mezzi internazionali né le sufficienti possibilità di dialogo bilaterale per venire in aiuto a queste persone.

Mille giorni di attacco sistematico, tutti i giorni. Come ne sta uscendo l’Ucraina?
Dipende dalle regioni, perché ci sono luoghi che subiscono leggermente meno attacchi e ci sono regioni più vicine al fronte. Le notizie che ho sulla popolazione di queste città e villaggi vicini al fronte di guerra, sono di persone che hanno dovuto abbandonare le loro case e non hanno nulla. Non hanno pane, acqua, vestiti, energia elettrica, mezzi per sopravvivere. Sono andati in loro aiuto molti volontari, le Caritas, e altre agenzie umanitarie. Lì, non si può dire che sia un inferno, perché non sappiamo esattamente come sia l’inferno, ma probabilmente non è molto distante dalle condizioni di vita in cui queste persone vivono.

Che clima si respira oggi in Ucraina?
Certamente c’è tantissima stanchezza, soprattutto perché si sa che ci sono poche speranze. Quando qualche politico dall’estero afferma: ‘farò di tutto per fermare la guerra’, l’esperienza ci dice che non è che sia così facile adempiere a queste promesse, perché la realtà è un po’ diversa. Quindi, la gente non si illude più di tanto. Anzi, io ritengo che persino la missione della Chiesa non è quella di rafforzare le illusioni, ma piuttosto di annunciare il Vangelo e ridare speranza alla popolazione perché c’è tanta disperazione. Quello che possiamo dire oggi alla gente è che nessuno può davvero garantire la sopravvivenza fisica, la sopravvivenza del paese e neanche l’aiuto della comunità internazionale. Ma si può continuare a dire che il Signore Dio ci ama, ama tutti anche quando siamo dimenticati o abbandonati o soli o in difficoltà o uccisi. Questo messaggio di amore e speranza è il lavoro più importante della Chiesa e delle chiese.

Mai come in questo periodo le diplomazie internazionali si stanno muovendo con dichiarazioni, telefonate… Agli occhi delle persone queste proposte sembrano preludere ad una resa. Cosa significa “pace giusta”?
La parola “giusta” significa non una pace falsa, non una pace immaginaria, frutto cioè dell’immaginazione di qualcuno, ma una pace vera. Una pace “giusta” significa anche che chi ha responsabilità, chi ha lanciato la guerra riconosca, in qualche modo, la propria colpevolezza perché il riconoscimento è un modo per fissare ufficialmente anche l’intenzione di non proseguire più in futuro con questo tipo di azioni. Una pace giusta è anche una pace non soltanto dichiarata sulla carta ma frutto di un cambiamento di mentalità. Una decisione sola non sarà sufficiente per generare pace, come non è sufficiente l’azione di un solo politico che si può incolpare. La pace per essere vera, chiede a tutti un cambiamento di mentalità. Anche io sento questo dovere morale. Siamo chiamati ciascuno di fronte a Dio ad assumerci le nostre responsabilità: che cosa abbiamo fatto, che cosa non abbiamo fatto? La pace infine va proclamata come un bene molto più grande rispetto a tutte le considerazioni politiche o agli scopi militari. Al concetto di una pace giusta appartiene quindi anche questo annuncio e la Chiesa ha la missione di risvegliare le coscienze perché riflettano che la pace è una realtà voluta da Dio e di cui Dio nell’eternità renderà conto.

Che bilancio si sente di tracciare sulla iniziativa diplomatica di Papa Francesco in Ucraina?
Prima di tutto io rimango convinto che la Santa Sede, pur non avendo esercito né molti mezzi a sua disposizione e avendo soltanto la Fede e la Parola, può e deve fare qualcosa. Non sappiamo quando si potrà raggiungere qualche risultato. Anche questa missione dell’inviato speciale del Santo Padre, è in corso e si prefigge – fin dal suo avvio – finalità umanitarie come il rimpatrio dei bambini, la liberazione dei prigionieri. Anche se modeste, queste finalità sono molto importanti perché aprono o mantengono canali di dialogo. Anche se finora i risultati sono poco visibili, senz’altro si deve continuare.
Anzi, direi di più: occorre rafforzare questa missione dell’inviato speciale accompagnandolo. Innanzitutto sostenendolo con la preghiera e con il pensiero, e non lasciarlo solo. A questo proposito ritengo molto necessari creare think tank cristiani con gente preparata in grado di elaborare concetti, idee e progetti.

M. Chiara Biagioni per SIR, tutti i diritti riservati

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