Quest’anno ricorrono i 1700 anni dal Primo Concilio Ecumenico, un evento da cui scaturì una professione di fede comune condivisa da tutti i cristiani (cattolici, protestanti e ortodossi). Il Concilio fu convocato nel 325 d.C. dall’Imperatore Costantino a Nicea, nell’attuale Turchia: fu un fatto epocale che segnò tutta la storia della Chiesa, perché gli esponenti religiosi si riunirono per professare la fede in Gesù Cristo come Figlio di Dio, Uno e Trino e “consustanziale al Padre”.
Tuttavia, si dovette far fronte ad alcune dispute e dottrine che criticavano la “consustanzialità”, tra cui l’arianesimo, secondo il quale Gesù Cristo non poteva essere Figlio di Dio nel vero senso della parola, ma un essere intermediario di cui Dio si avvale per la creazione del mondo e per il suo rapporto con gli uomini. L’arianesimo fu a sua volta smentito dal Concilio di Nicea, che rappresentò una tappa importante, anche se non ancora definitiva, verso il grande Credo di Nicea-Costantinopoli del 381 che formulò il dogma della Divina Trinità, come forma tipica del monoteismo cristiano. Un altro tema importante fu anche quello di discutere su una data comune di celebrazione della Pasqua tra le Chiese d’Oriente e d’Occidente, anche se il dibattito è aperto ancora oggi data la differenza tra il calendario gregoriano e il calendario giuliano.
Dal 18 al 25 gennaio 2025, si è svolta come ogni anno la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, con l’obiettivo di rinnovare quello spirito di unità e comunione tra i fedeli delle diverse confessioni cristiane. Oggi a 1700 anni di distanza dal Concilio di Nicea, preghiamo Dio Onnipotente affinché guidi e illumini i cuori dei credenti a riconoscersi fratelli e sorelle, figli e figlie dello stesso Padre che è nei Cieli. Veniamo ora al secondo interrogativo: come poter rileggere il ruolo dell’antropologo nel dialogo interreligioso? Essendo l’antropologia, una disciplina che studia in modo comparato le culture, gli usi e i costumi dei vari popoli, credo che dovremmo dimostrare di saper cogliere in modo trasversale e più aperto queste differenze, per far capire che in realtà è più quello che ci unisce che quello che ci divide. Dovremmo cercare di abbattere i pregiudizi e i muri di divisione che sono stati costruiti nel corso dei secoli, per far in modo di riconoscere l’altro come “fratello o sorella”.
Sabrina Manuelli