Viviamo in una società dove il politicamente corretto sconfina non di rado nella ipocrisia che, non dimentichiamolo, era per eccellenza ciò che irritava Gesù, il fariseismo di facciata. Ecco allora che, in questa prospettiva, la diplomazia, il bon ton, l’eleganza formale diventano dei valori fini a se stessi. Appare inutile ribadirlo, ma a scanso di equivoci facciamolo, che questo non è naturalmente un inno alla mala educazione, all’invettiva, quando non addirittura alla violenza verbale, all’aggressione terminologica che, non di rado, sono le basi per sconfinare poi in quelle fisiche. Questo è scontato. Ciò che preme evidenziare, invece, è il fatto che per vaccinarsi contro queste autentiche forme di inciviltà spesso si utilizza una dose di siero così potente da cadere nell’estremo opposto.

Questo capita spesso anche nell’ecumenismo, dove sembra che spesso si giochi a lisciarsi il pelo vicendevolmente, quasi a trovare quanti più difetti, limiti, errori e miserie “tra i nostri” e a valorizzare (non si sa bene quanto poi si creda a tutto ciò) “gli altri”, per diventare loro quantomeno simpatici, per cercare di “andare d’accordo” quasi che la comunione tra le confessioni sia appunto un “andare d’accordo”, come se un matrimonio “funziona” se i due coniugi la pensano allo stesso modo e si accarezzano tutto il giorno dicendosi sempre e solo reciprocamente quanto si vogliono bene, quanto ognuno abbia dei limiti e quanto invece l’altro sia bello bravo e buono. Capiamo che tutto ciò non ha alcun senso. Il dialogo ecumenico deve partire dall’incontro. E dunque soffermiamoci un attimo su questo termine. Incontro. La parola incontro è formata da due parti: “in” e “contro”.

Due parole opposte, contradditorie, in antitesi tra di loro. La parola “in” che è la parola del raggiungere l’altro, la parola dell’abbraccio, il termine dell’inclusione, della presenza, in grammatica diremmo: dello stato in luogo, dell’esserci, del fondersi con qualcuno, dell’essere immerso con quel qualcuno, di essere fatto della sua pasta. Non può esserci incontro se c’è un pregiudizio preconcettuale, se c’è una rigidità pregressa che ci inchioda sul nostro terreno e non ci fa correre verso “ad o in” si direbbe in latino.

Ma c’è anche, nel termine incontro, l’altra parte, “contro”, che simboleggia proprio l’opposizione, la diversità dell’altro, una differenza marcata. Nell’incontro, in ogni incontro, dunque, convivono questi due fattori, l’abbraccio e lo scontro, ma uno scontro che non è sinonimo di violenza, ma di una apertura mentale, di una percezione che da un lato siamo attratti verso l’altro (in) dall’altro avvertiamo chiaramente, se non siamo ipocriti, che quanto da lui creduto non sempre collima con le nostre convinzioni e dunque ci obbliga a scuoterci, a riflettere, a metterci in discussione, anche a volente in modo traumatico, come può essere appunto lo sbattere simbolicamente il capo contro un muro. Questi sono i presupposti fondamentali per un vero ecumenismo, altrimenti cadiamo in una solidarietà umana, anzi, umana troppo umana, che ci confina in un perbenismo del “volemose bene” che dimentica che, nel cristianesimo, c’è anche una componente legata alla “spada” per dirla con Gesù, e non dell’accomodamento pietoso fine a se stesso. Tutto questo certamente è ben più faticoso e impegnativo del limitarsi alla gentilezza, ma siamo chiamati a “fare la verità” la quale passa per la porta stretta e non per le comodità.

Matteo Salvatti

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