La Corte penale internazionale (Cpi) ha finalmente osato. Ad aprile il procuratore del tribunale con sede all’Aja aveva raccomandato l’emissione di un mandato d’arresto nei confronti dei leader israeliani e palestinesi. Da allora i giudici hanno preso tempo, sottoposti a enormi pressioni affinché si tirassero indietro. Ma alla fine hanno compiuto il passo decisivo. Da aprile a oggi sono cambiate molte cose: due dei leader di Hamas coinvolti nelle indagini della Cpi sono stati uccisi, mentre la morte del terzo è stata annunciata a luglio (ma non confermata da Hamas). Sul versante israeliano, il ministro della difesa Yoav Gallant, colpito da un mandato d’arresto, è stato defenestrato dal premier all’inizio del mese. Resta dunque Benjamin Netanyahu, personaggio centrale della vicenda, figura politica dominante nello stato ebraico ormai da tre decenni e soprattutto architetto di questa guerra che dura da oltre un anno. Il mandato d’arresto nei suoi confronti è un fatto senza precedenti, e come tale è stato accolto.

Il primo ministro israeliano si è difeso avanzando un paragone con il famoso affaire Dreyfus. Secondo Netanyahu i leader democratici di Israele sarebbero vittime di una falsa accusa motivata dall’antisemitismo, come lo era stato l’ufficiale ebreo nella Francia della fine del diciannovesimo secolo. La prima reazione è rivolta evidentemente agli israeliani e insiste per l’ennesima volta sull’idea che gli ebrei siano soli davanti a un mondo ostile. In realtà questa tesi è smentita palesemente dai fatti: l’amministrazione Trump, infatti, si è immediatamente schierata con Israele. Mike Waltz, futuro consigliere per la Sicurezza nazionale, ha promesso una “reazione forte” contro la Cpi da gennaio. Ma la realtà è più complessa, prima di tutto perché la decisione della Corte poggia su una solida argomentazione giuridica. Il tribunale ha stabilito che esistono “motivi ragionevoli per credere” che i soggetti in questione abbiano commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Numerosi atti compiuti da Israele nella sua risposta all’attacco del 7 ottobre rientrano in queste categorie giuridiche, a cominciare dall’utilizzo della privazione di cibo come arma di guerra. Persino gli Stati Uniti hanno denunciato gli ostacoli frapposti alla distribuzione degli aiuti alimentari alla popolazione di Gaza.

La prima conseguenza del mandato d’arresto è che Netanyahu si ritrova nella stessa posizione di Vladimir Putin, su cui pende un mandato d’arresto fin dall’anno scorso. Putin oggi viaggia soltanto nei paesi “sicuri” e per questo motivo non ha partecipato al G20 organizzato in Brasile. La Francia e diversi paesi dell’Unione europea hanno già annunciato che intendono rispettare le disposizioni della Cpi.

La seconda conseguenza è su scala internazionale. La vicenda, infatti, porta acqua al mulino di chi denuncia da mesi il sistema di “due pesi e due misure” attuato dall’occidente, pronto a condannare la Russia in Ucraina ma impassibile di fronte alla tragedia di Gaza. Applaudendo la Cpi quando ha colpito Putin ma attaccandola quando si tratta di Netanyahu, gli Stati Uniti privano di ogni credibilità i loro discorsi sul diritto internazionale.

Infine la decisione della Cpi evidenzia i danni che la brutalità dell’azione di Israele a Gaza ha arrecato all’influenza dello stato ebraico nel mondo. Detto questo, è difficile che gli israeliani si convincano che questa guerra sia durata fin troppo. D’altronde Netanyahu sa di avere le spalle coperte dagli Stati Uniti, che soltanto 48 ore fa hanno opposto nuovamente il loro veto alla richiesta di un cessate il fuoco all’Onu. La giustizia internazionale ha dalla sua parte il peso della propria forza morale. In un mondo ideale questo dovrebbe bastare a far tacere le armi. Ma purtroppo la realtà è ben diversa.

Pierre Haski
France Inter (Francia), ripreso da Internazionale.it, traduzione di Andrea Sparacino – © tutti i diritti riservati

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