Le elezioni negli Stati Uniti d’America, svoltesi lo scorso 5 novembre, hanno visto prevalere nettamente Donald Trump, il golpista miliardario che denuncia brogli e incita al colpo di stato solo quando vincono gli altri. L’esponente repubblicano ha battuto la debole e incerta candidata democratica, la vicepresidente uscente Kamala Harris, entrata in gara con grande ritardo dopo la lunga indecisione da parte del non più lucido presidente in carica, Joe Biden.
Nonostante il rigido sistema elettorale maggioritario a turno unico, che non permette la vittoria di candidati diversi dai due partiti dell’establishment, vi è una notizia non di poco conto. La candidata dei Verdi, Jill Stein, si è affermata al terzo posto, più di vent’anni dopo la performance di Ralph Nader. Il risultato complessivo vede Jill Stein (medico, attivista per l’ambiente nonché candidata presidenziale nel 2012 e nel 2016) e il candidato vicepresidente Butch Were (accademico, da sempre impegnato nelle lotte sociali e per i diritti civili) ottenere a livello federale lo 0,5% dei consensi, pari a più di 660 mila voti. Il consenso al ticket presidenziale verde si presenta in maniera omogenea sia nei 38 stati dove aveva ottenuto l’accesso al voto, sia nei 5 stati nei quali era necessario scrivere direttamente il nome. In alcune contee, i verdi hanno ottenuto addirittura consensi sufficienti ad essere il secondo partito, superando la democratica Harris.
Questo voto vede una crescita significativa dei Greens che sono riusciti, attorno alla figura della Stein, a costruire una larga convergenza tra movimenti locali che si battono per la pace, la giustizia sociale e ambientale.
Si sono costruite connessioni con il movimento per la pace che si batte contro lo sterminio del popolo di Gaza da parte del governo di Israele e contro le debolezze e i tentennamenti dell’amministrazione Biden/Harris. Questo vasto movimento di opinione ha trovato in Jill Stein la più credibile e coerente candidata contro la guerra e il genocidio, in grado di portare gli Usa a stabilire relazioni diplomatiche al di fuori della logica dell’impero che da sempre contraddistingue la politica estera statunitense.
Non è un caso che la comunità musulmana di America ha votato in maggioranza per Jill Stein dando vita alla campagna di boicottaggio della candidata democratica. Anche gli attivisti per i diritti sociali, i rappresentanti dei lavoratori, esponenti della comunità Lgbtqia+ hanno guardato con fiducia al ticket dei verdi per la loro piattaforma anticapitalista, ecosocialista e libertaria. Nello stesso modo sembra riuscito il tentativo della Stein, sulla falsariga di quello che aveva già fatto alle elezioni del 2020, Howie Hawkins di costruire, attorno alla candidatura dei verdi, delle alleanze con quei piccoli partiti e movimenti che rappresentano la frastagliata area della sinistra socialista e comunista. E viceversa, dove i verdi non erano presenti sulle schede elettorali hanno dato indicazioni di voto per i candidati della sinistra in corsa nei singoli stati. Tutto ciò, è avvenuto nonostante il boicottaggio da parte dei media, da parte dei democratici americani che hanno messo in atto pratiche ostruzionistiche e di apertura di conteziosi legali per rendere ostica la candidatura di una forza di sinistra autentica e popolare. Si aggiungano anche i verdi europei, con un profilo politico molto più centrista, che pochi giorni prima del voto hanno avanzato la richiesta di ritirare la candidatura della Stein per non disturbare la corsa della Harris.
Aggiungo, tra le difficoltà che hanno incontrato i Verdi, anche una profonda disparità economica e di finanziamento nel portare avanti la campagna elettorale che rende il meccanismo elettorale Usa impermeabile ad istanze che nascano dal basso e a sinistra e non dai soliti circoli di lobbisti e di grandi capitalisti. Dunque, questo risultato elettorale appare modesto nei numeri, ma significativo politicamente perché consegna ai verdi americani, scalzando il partito libertariano, la responsabilità di prima forza politica dopo i “partiti di Wall Street”. Questo apre nuove opportunità per la sinistra americana: può strutturarsi in maniera più efficace e rappresentare le variegate lotte che, nei vasti territori degli States, reclamano diritti, giustizia e pace.
Come scritto da Jill Stein: “L’establishment politico trema perché i cittadini ci stanno scoprendo… Dobbiamo solo far arrivare la parola ai milioni di americani che rifiutano lo status quo fallito e portarli nel nostro movimento…Abbiamo le soluzioni per porre fine al genocidio e all’impero; per adottare una politica estera basata sul diritto internazionale, sui diritti umani e sulla diplomazia; per affrontare l’emergenza climatica; per invertire la disuguaglianza della ricchezza e investire nel benessere umano; per smantellare i sistemi di oppressione e costruire una società radicata nella giustizia, nella libertà e nell’equità. Insieme, siamo inarrestabili”.
Paolo D’Aleo