Che le varie confessioni cristiane cerchino di appianare reciproche e autentiche idiosincrasie protratte negli anni è certamente meritorio. Ciò che purtroppo, però, a oggi, sempre più si constata, è una sorta di indifferentismo, per dirla con un termine filosofico. Ossia la tendenza non a un dialogo fermo tra le altre religioni o ecumenico tra i cristiani, quanto piuttosto una sorta di appiattimento lessicale che tenderebbe a dare per scontati certi risultati che invece non sono per nulla raggiunti e che formule vaghe e molto aleatorie vorrebbero in qualche modo trovare il più amplio consenso possibile. Non sarà in questo modo, mistificando la realtà e lasciandola galleggiare in un limbo ambiguo che si troverà una piena comunione la quale non può che passare da una franca ammissione di quei principi irrinunciabili per chiunque. Il dialogo ecumenico, così come quello interreligioso non può ridursi a una scatola vuota dove poco alla volta vengono tolti tutti i contenuti per non scontentare nessuno e potersi solo nominalmente ritrovare sotto un cielo nel quale nessuna stella può più brillare. Purtroppo la tendenza odierna, proprio a livello lessicale, è quella di lasciar intendere a chiunque quello che il proprio algoritmo mentale intende decifrare.

Peggio ancora: nell’era dei social gli stessi contenuti vengono esternati o meno e in termini differenti in base al pubblico presente in quel preciso momento, ancora una volta per non scontentare nessuno e dare l’impressione di essere attrattivi per tutti, selezionando ogni termine che possa, in base ai neuroni specchio, essere tradotto nel proprio linguaggio valoriale.

Tutto questo però è pericoloso e intrinsecamente disonesto, perché punta non su una Verità che può imporsi laddove con purezza di intenti e di cuore la si cerca, quanto piuttosto la riduce a una merce di contrabbando, laddove a incidere sono i numeri, quando invece il piccolo gregge pare essere la cifra del cristiano e: “guai a voi quando tutti parleranno male di voi”. Questo non è bigottismo, non è fondamentalismo. Anzi. È il suo contrario! Tacciare qualcuno per fondamentalista significa proprio sottrarsi al dialogo, significa berciargli: “Io con te non parlo”. L’obiettivo è proprio quello comprendere che non è l’uomo che fabbrica una verità parziale, banale, buona per tutti, ma la deve accogliere, a costo di ricredersi o perfino di non comprenderla totalmente. Capiamo dunque che se la Verità è la massima ricchezza, è l’abbondanza di ogni pienezza, ecco allora che il più grande torto che le si può fare è quello di anoressizzarla, di destrutturarla a prisma in grado di riflettere il colore che possa aumentare l’odience religiosa, che è un ossimoro in se stessa. Oltre tutto solo a prima vista questo potrebbe essere un percorso più semplice, ma sul lungo termine procurerebbe, e in parte ha già procurato, dei focolai e delle ferite ancor più difficili da rimarginare da quelle che la storia ha prodotto. Perché se il principio deve essere comunque e sostanzialmente agapico, comprendiamo che ogni altro mezzo è frutto di una menzogna più o meno velata, di un pietismo e di un buonismo che non fanno onore alla verità, l’unica che può rendere liberi, e dunque senza piena libertà non può esserci né verità né amore e quindi ogni surrogato di convivenza pacifica diventa soltanto un anestetico temporaneo e sintomatico privo di valore effettivo e capace di portare frutti duraturi. Il percorso va ripreso da una piena accoglienza del Concilio Ecumenico Vaticano II e persino da testi tanto contestati come Dominus Jesus, laddove, col tempo, s’è addirittura mostrata gratutidine da parte di chi, con generosità di cuore, ha apprezzato l’onestà di una Chiesa che sa esporsi ed esprimersi in forma escatologica e non orazianamente volta a un tempismo volto solo a un proselitismo di facciata. Un capitolo a parte sarebbe poi da lasciare proprio ai temi non trattati, partendo dalla teodicea, che lasciano alla scienza, quasi fosse non un dono da parte del Creatore ma il vero creatore, la possibilità di fornire risposte, laddove prima ancora che la fede, la teologia robusta è in grado di fornire risposte esaustive, convincenti e che placano l’anelito umano al raggiungimento di una completa assimilazione del reale, consci che vediamo attraverso uno specchio, per dirla con San Paolo. Il primo passo non può dunque essere che il liberarsi dell’autosufficienza, della presunzione di essere noi stessi i costruttori, gli artefici di una unità che non è un nostro risultato, ma è essenzialmente un dono da chiedere insieme, a cui certamente tutti dobbiamo cooperare ma senza la pretesa di essere i protagonisti.

Matteo Salvatti

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